Anafore linguistiche, segni antichi prolessi dell’oggi.

8Da dimenticate incrostazioni fossili, stratificazioni calcaree e indagini archeologiche emergono i segni dell’oscura scrittura di Renzo Bellanca. E, non caso, si parla di scrittura. Scrittura come segno indecifrabile, eco di lingue sepolte e intraducibili. Segno parlante, eppure ormai muto, nella vasta sonorità del tempo. Quasi il tentativo di riscoprire il valore arcano dell’alfabeto, di tutti gli alfabeti, quelli del presente e quelli del passato.

Nella mischia di materiali eterogenei, che attengono al suo mestiere di comporre elementi a fini scenografici, per suggerirne altri di diversa natura e consistenza, Bellanca scolpisce lettere solitarie, caratteri espulsi, frammenti lessicali. Restituisce così il significato primigenio della scrittura e, solo apparentemente, della comunicazione. Anzi, potrebbe dirsi, con facile gioco di parole (ancora lettere, ancora parole, dunque) che i suoi segni alfabetici informano, ma non comunicano. Ci restituiscono indizi di una lingua perduta, forse salvata, ma certo insufficiente a formulare idee, concetti, sensazioni. Inabile a dire.

Sprovvisto di vocabolari, ignaro di qualsiasi stele di Rosetta, privato di corrispondenze, l’alfabeto di Bellanca si offre nudo e spoglio, denso di significati ma incapace di esprimerli.
La parola si scompone, perde forza e dimensione, torna ai suoi elementi essenziali ed elementari.
Sillabiamo lettere balbe, in una danza cieca con qualcuno che ci parla da lontano, da troppo lontano. I quadri di Renzo Bellanca somigliano, disperatamente, a messaggi in bottiglia di naufraghi che reclamano aiuto in un’altra lingua, ignota e remota, inaccessibile. Condannati al loro naufragio, alla loro isola di approdo, a una salvezza impossibile perché collocata a una latitudine, nello spazio e nel tempo, ormai definitivamente smarrita.

Si è detto di un’isola smarrita. E c’è l’isola di Bellanca, in queste opere. Che è poi la Sicilia delle incisioni sicane, dei frammenti fenici, delle pietre parlanti in greco, delle lapidi latine, dei papiri in arabo, delle testimonianze berbere. L’isola federiciana che inventa il suo italiano e recita le sue poesie. L’isola cupa dei manoscritti spagnoli, a celebrare i riti solenni e crudeli del Sant’Uffizio.
L’isola popolata da molte lingue, da tanti popoli, da eccessive incrostazioni che scivolano nell’universo del dialetto, distinguendo provincia da provincia, città da città, paese da paese.

Bellanca scava nei siti del passato, prossimo o remoto che sia. Passato collettivo e individuale: ne ritorna carico di segni, tessere alfabetiche, cocci di creta. Da relitti affondati o sepolti, per estrazione, cava fuori vocali, balbuzie, glosse. Rinuncia a ricomporle, consapevole che nessun alfabeto è ricostruibile quando una lingua è morta, morti coloro che la rendevano palpitante e sonora. Una resa, forse.

Eppure, nell’affollamento odierno di slogan, comizi e messaggi, quelle lettere sparse sembrano l’unico linguaggio possibile, restituito al proprio valore originario. I segni di Bellanca, nel loro enigmatico isolamento, si oppongono all’impostura di una lingua piegata all’esigenza di comunicare senza informare. I suoi quadri sono lo specchio opaco di un paesaggio metropolitano denso di pubblicità, affissioni, spot, loghi, marchi, simboli che l’occhio trascura, presumendo che egualmente si comporti il cervello. Permangono, a tratti, come in una visione di sogno, macchie di colore e segnali scomposti, pulsanti nella memoria come tracce luminose. Frammenti di un alfabeto inservibile che parla di gerghi e linguaggi sempre meno traducibili, sempre più inconciliabili. Un alfabeto estenuato: il nostro.

Gaetano Savatteri