Non so come questa vecchiaia sia arrivata. Non me ne rendo proprio conto. Il mio nome – Yeronimus – e il mio mestiere – Grande Viaggiatore – sono stampigliati a lettere d’oro sulla copertina di una pubblicazione che odora di cuoio fresco.
Sono io quello. E’ il mio nome. E mi domando come abbia fatto quel me stesso ad arrivare fin qui. E come possa essere io, il medesimo di allora.
Eppure ogni volta, ogni volta, ogni volta che il cuore pensa, ritrova lo stesso frutto dei desideri, e tremori, follie: rinasce. Anche se sono soltanto un vecchio, una energia sempre nuova discende dal cielo, e mi bagna ancora. Quintessenza, materia oscura, ghiaccio che scotta, esiste dall’inizio dei tempi, e io ne faccio parte, finché mi è dato.
Quando la prima nave staccò la prua dal porto, mi dissi: “il mondo ti appartiene“ e invece ora so che mi aspettava soltanto un viaggio di trasformazione. Tutto è cambiato, anche se io sono lo stesso di allora.
Anche se sono lo stesso di allora, adesso mi specchio nella paura di una notte infinita.
A quale scopo, mi chiedo, il terrore si diverte ? Davvero la parvenza della mia vita, come quella di chiunque altro, è destinata a sciogliersi, come si scioglievano le vele nell’azzurro dei tropici ? Davvero dietro ad ogni miraggio appare l’ombra di una resa ?
Il viaggio sta per chiudersi, l’ancoraggio è vicino, e dai venti invernali stavolta non mi salverà nessuno. Eppure guardo dalla finestra il lento spegnersi delle luci al confine della foresta, e so che domani, forse, tornerò a rivederle spegnersi un’altra volta. Mi rimarrà questo conto scarno di giorni, e non sarò io a decidere quando fermare la testa sul cuscino, per lasciare che la mano bluvenosa della morte carezzi i miei capelli.
Voglio dire quel che ho visto. Voglio liberare ancora una volta il cuore: se chiudo gli occhi, sento gli stessi profumi di allora, il canto dolce e amaro del mare sul viso. Le corde di canapa ruvide intorno alla vita, il silenzio disperato di pomeriggi infiniti. Le amanti accarezzate, il destino che ho letto nel loro fuggirmi, alla fine di ogni sosta. Lo rivedo come se fosse adesso, e lo posso raccontare:
ero libero, ero io.
Ero, nei pomeriggi infiniti.
Ero al centro di tutto. Ero in piedi sulla rocca più alta della città, ero sotto un cielo che non ho più visto. Pieno di colori e ombre, di portenti e silenzi.
Ero io quello che si immerse nel mare.
Ero io quello che restò a galleggiare, sospeso tra cielo e mare.
Ero il misterioso essere che mi contiene.
Ero il contenuto pulsante che viveva, e pensava. E sognava.
Ero io, come sono io ora.
Ma ora, che le tenebre avanzano, l’uomo col messale legge i Suoi decreti. E davanti a lui c’è il me stesso che sono: il vecchio che non dorme e preferirebbe il sonno alle parole, e finisce per disperarsi, che aspetta il Tempo, che non ha tempo, che aspetta un morbo lontano, che lo ipnotizzi. Il vecchio che si abbandona al soffio di una melodia, e senza certezze dilania i suoi discorsi a furia di morsi amari. Il vecchio appeso a un filo che ha imparato persino a pregare.
Alla mia età, che ho visto tutto, non ho visto ancora niente.
Non ho visto il meglio e non ho visto il peggio. E sulla prima pagina del libro c’è scritto:
Attraversi il mare con un guscio di noce, guardi le stelle, ti affidi al vento, e non sai niente della nera tempesta che avanza. Sei chiamato a scavalcarla un’altra volta, affidandoti al coraggio del cuore, affidandoti soltanto…
Fabrizio Falconi