Angela uscì dalla tenda, poiché non riusciva a dormire. Si avvolse nella veste di garza e rabbrividì. Sentiva sulla pelle i rumori della notte, vaghi sospiri di uccelli in amore, fruscii e sussurri di piccoli insetti. Fasci di luna davano alla vegetazione inquieti bagliori metallici. Il cielo era dipinto come un giardino di stelle, ma la voce delle jene lasciava dentro un tremore di infelicità opprimente.
Avanzò nella radura, quando vide la sagoma di un uomo accoccolato contro il baobab. Ricordò allora la figura dell’ indigeno a cammello incontrato il giorno prima lungo la mulattiera di sabbia, vicino alle saline di Massaua. Era un soldato delle truppe coloniali. Aveva una veste di cotone che lo avvolgeva come una seconda pelle e che gli lasciava scoperte le braccia, le caviglie e i piedi. Il capo era coperto da un turbante bianco. Gli occhi bruciavano come incensieri. Ora dormiva contro il grande albero che allargava le sue braccia verso il cielo.
Una forza irresistibile attraeva Angela verso l’indigeno. Nella notte quel desiderio non ebbe alcuna colpa di esistere sotto il cielo generoso dell’Africa. Angela gli si avvicinò e si inginocchiò per parlargli. Quando gli fu vicinissima, l’indigeno si svegliò e si tolse la garza dal volto, fissando gli occhi scuri nei suoi. Scosso da quel contatto, si alzò in piedi e trasse Angela a sé trascinandola dentro l’albero.
Il baobab aveva una cavità entro la quale vi era una grotta e un piccola madonnina appesa in alto per gli oranti di passaggio. Il soldato la baciò ripetutamente sul collo e allungò le mani sulle reni, stringendola forte. Presa dalla passione di quella stretta, Angela ricambiò il bacio del soldato, quasi mordendolo. Fu allora che dalla veste di lui venne un forte odore di sudore e di pelle vissuta lontano dall’acqua e tutto si mescolò al forte aroma di legno che veniva dal grande albero. Angela fu quasi per svenire, allora si divincolò con forza dall’abbraccio dell’indigeno e corse nella tenda.
Paola Pastacaldi