Pallido, con la fronte madida di sudore, gli occhi fissi e spalancati all’orizzonte.
Alfredo Rinaldi faceva fatica a respirare… stentava a credere ai suoi occhi. No, non poteva essere… non poteva essere che… !
Aveva un unico pensiero fisso e molteplici sensazioni: paura, felicità, rabbia, desolazione.
Perché lui, perché proprio lui e perché proprio in quel momento della sua vita?
La sua mente critica, analitica e razionale lo portava a ribellarsi, a non accettare ciò che lo stava sconvolgendo!
Camminava un pomeriggio d’estate tra le trazzere polverose della campagna e le pietre arroventate di quelli che erano state, in un tempo pregnante di storia e di affetti, i muri perimetrali di antiche abitazioni di età romano imperiale.
Il riverbero della luce era accecante e il ronzio assordante delle cicale scandiva il sorgere tumultuoso ed incalzante dei pensieri. Uno, fra tutti, era imperante, costante, sempre presente: più Alfredo cercava di rimandarlo indietro, di ricacciarlo nei meandri della memoria atavica della sua coscienza, più esso ritornava in maniera prepotente ed autoritaria, quasi a rivendicare il proprio diritto ad esistere, per suscitare nella coscienza di Alfredo Rinaldi, sessantenne archeologo classico, la…… Responsabilità! Proprio così: mentre teneva in mano un frammento del disco di una lucerna, quel posto della campagna siciliana, immersa nell’atmosfera carica di linguaggi, segni, epigrafi, reperti, nel mondo quasi metafisico che la vampa estiva siciliana determinava, la canicola impietosa e stordante e l’animismo della realtà che stava riportando in superficie lo chiamava, stranamente, ad un atto di coscienza vigile che, come in un verdetto orfico, lo interpellava a ricercare la verità. Rifletteva Alfredo sulla Responsabilità: significava compiere la più grande rivoluzione, iniziare a vivere, cioè, in maniera consapevole, scegliere i propri pensieri, le proprie azioni; non abbandonarsi in balia degli eventi, lasciando che il proprio stato d’animo fosse determinato da fattori esterni o, ancora peggio, permettendo che un atteggiamento accidioso, scuse e giustificazioni impedissero di agire. Non doveva più lasciarsi trascinare da uno stile di vita frenetico e nervoso in cui, a farne le spese sono solo le cose da cui si dovrebbe trarre l’energia vitale per l’esistenza: il nostro pianeta, la nostra Madre Terra e, con essa, le cose piccole e umili, gli unici, assoluti, autentici contatti con quello che siamo e con quello che siamo stati. Un pensiero, quello che accompagnava Alfredo, inaccessibile se a prendere il posto della responsabilità è il torpore di una vita plagiata dall’indifferenza e omologata dalla consuetudine. Un pensiero inaccessibile, difficile da scalfire nella sua impenetrabile corazza argentea. Alfredo Rinaldi capì che bisognava “sporcarsi le mani”, così come ormai aveva compreso dal suo lavoro, e che bisognava chinarsi sul “terreno” delle speculazioni sociali per riportare alla luce la consapevolezza, denunciando i delitti che abbrutivano questo incredibile, meraviglioso pianeta. Già, la Madre Terra! Dove il presente ed il futuro convivono con il passato e il passato continua ad esistere nella nostra capacità di responsabilità, se solo si permette al pensiero di accedere alla coscienza.
La pausa pranzo era terminata e la voce, dapprima rauca, poi più forte e più insistente del signor Rizzo, l’operaio capo cantiere, interruppe quella strana dimensione onirica, facendolo ripiombare nella realtà fatta di storia e di archeologia che, da un mese a questa parte, stava indagando: “Dottù, vuole favorire un poco d’acqua fresca? Ora ora, me muglieri, me l’ha data per portarmela!”
Alfredo Rinaldi pose il frammento di lucerna che teneva tra le mani nella cassetta dei reperti da catalogare, sorrise e accettò volentieri l’acqua fresca di Rizzo, felice di essere lì, di essere stato e di essere adesso: per lui c’erano voluti sessant’anni!
Lia Bellanca