Flusso di vita fossile Doppio Linguaggio

Eri tornato per restare, dicevano.
Per molti non era una sorpresa. Soltanto una notizia già scritta.
Ho sprimacciato il giornale e l’ho richiuso. Riecco la tua valigia di parole di seconda mano. Ne riassumo il campionario.
Quelli come te cadono e resuscitano senza nemmeno spolverarsi le ginocchia. Quelli come te non hanno tempo né dovere di rattopparsi gli strappi, di asciugarsi i baci della muffa sul colletto.
Quelli come te assicurano, giurano, esagerano, profetizzano, parlano, parlano.
Parlano.
Nessuno, vedendoti, farà caso a quante volte sei morto. Non ti guarderanno. Vorranno ascoltarti. Senza volere, desiderando.
La solita, sbadigliante brutta notizia.
Una breve di poche righe, a margine del giornale, però parlava già allora del tuono sotterraneo. Superstizioni di gente del vulcano, rideva il cronista.
Stavolta lui è tornato per non andarsene, insistevano, e più rigido e più molle e più forte e più ingannevolmente fragile di prima. C’è stato un breve purgatorio, l’hai smaltito. Del buco dove ti eri abbozzolato hai assorbito la pietra, i bruscoli di tufo, le spine di granito. Cadevano gocce d’acqua dura, le hai leccate, ti facevano bene allo stomaco. Prima avevi carne, rischiavi ulcere e umane scuciture, ma allora, all’uscita dal sepolcro, eri una statua di Cesare che cammina, gli occhi come uova di quaglia, le guance di cera scolata. La bocca mobile. Questo colpiva. Le labbra sembravano l’unica cosa viva in te, si muovevano su quella tua maschera secca in un prodigio che stordiva.
All’improvviso ho capito che le parole dette non ti bastavano più. Questa era una bella, brutta, nuova notizia.
E allora ti sei strappato un pezzo di voce e l’hai sbattuto su un muro di città, da dove tutti passavano e tutti potevano leggere. Quella voce spiattellata sull’intonaco ha fatto un suono di calce fresca, dalla chiazza sono schizzate le parole scritte, hanno affollato lo spazio, il superfluo è scolato in lacrime, il peggio è rimasto lì, ad asciugare.
Giorni dopo, un’altra breve notizia avvertiva del lamento sotterraneo, delle prime lingue di fuoco che zampillavano dalla montagna. Favole della gente del vulcano, tranquillizzava il geologo. Non c’è pericolo, il fuoco sta giocando, si calmerà.
I tuoi proclami erano ovunque, a quel punto. Sui muri dove i più passavano e potevano leggere. Dai brandelli di manifesto affioravano questi moderni bassorilievi, il tuo linguaggio da tiranno di oggi scolpito con antichi scalpelli. La carta ti sarebbe costata meno, ma la pietra ti faceva sentire più sicuro: la pioggia non la scioglie.
Eri tornato per restare, giuravano. E avrebbero avuto ragione per anni.
Finché il vulcano non ti ha cacciato dalle prime pagine dei giornali, rubandoti il posto.
I titoli urlarono il comizio della montagna e non più del dittatore. Il tufo esplodeva, il granito ribolliva, l’acqua si dissolveva nel fuoco e lasciava la terra in spirali di fumo nero. Le case cadevano come carte da gioco. Le figure di re e di fanti ci strillavano dentro. I pesci rossi cuocevano nelle ville comunali. Le televisioni scoppiavano.
L’eruzione ha coperto molte cose vive. Quelle moribonde le ha sommerse a metà, quasi per distrazione. È passato del tempo. La città l’hanno ricostruita altri.
Oggi il pubblico paga per vedere i tuoi proclami al popolo di allora, discorsi bendati da un velo di lava.
Tutti si accorgono di quello che hai scritto, ne colgono l’assurdo, ringraziano la natura per averlo trasformato in qualcos’altro.
Relitti sognati da un incisore. Questo.

Giacomo Cacciatore