Ho cercato rifugio nei favi secchi, abbandonati agli alberi di pesco. Oscillavano alle raffiche di Libeccio cariche di rosso e anticrittogamici. Sembravano metropoli del giorno dopo, dopo il bombardamento, dopo il fungo atomico e l’agonia. A noi api è bastata una variazione nel termometro del bosco, una goccia in più di veleno, un granello nel pulviscolo. Ho cercato nelle stanze del miele ancora un’orma, un ronzio, persino una minaccia. Volevo un’ultima dolcezza. Nella trasparenza del favo, come stalattiti, si raggrumavano evaporazioni zuccherine. Nella sala parto della Regina mi è sembrato di avvertire vagiti di larve. Ho scoperto invece feti di ape cristallizzate in una bara di resina. Ho sfidato ancora il Libeccio e questo rosso di tramonto, ronzando, volando via come camminano i cani randagi, sbilenchi, ondeggianti, senza rotta. Ho visitato arnie distrutte ai limiti dei giardini di zagara che non è più un fiore, ma un laboratorio osceno di frutti impropri, così inenarrabili che non hanno nome. Nessuno, per senso di colpa, li ha voluti battezzare. Hanno fatto a pezzi le arnie, per rabbia e disincanto, per gli affari persi, quando al posto del miele depositavamo secrezioni liquide di acqua e sangue, insapore, invendibili. Velenose.
Vivo questo ultimo giorno in solitudine, ape senza alveare che un pomeriggio si è affogato all’unisono per scelta dell’istinto, perché non c’era altro da fare, nelle gebbie d’irrigazione, nelle pozzanghere scavate dai trattori, nelle piscine delle ville, a coprire con uno strato di ronzio rantolante le vasche di cloro delle bracciate. I corpi intasavano le condotte, bloccavano gli scarichi, ostruivano le saracinesche dei pozzi. Così se ne accorsero: le api sono estinte. Sono andate a tenere compagnia ai dinosauri di pietra nei musei di Scienze naturali. E nessuno potrà più raccontare nelle sere d’estate la favola del miele traboccante alle api adolescenti, quando il favo faceva silenzio per ascoltare la meraviglia delle cicale romantiche e ci radunavamo a guardare l’ipnosi dell’orgia d’amore delle lucciole e tutti i segni notturni che si davano il cambio a regolare l’immutabilità del bosco. A garanzia cadevano stelle a indicare la strada alla porpora dell’alba. L’ultima ape sono. Mi ritroveranno un giorno come una sentenza di condanna che viene da lontano, scolpita in un geroglifico nel cuore fossile di qualche pietra.
Giosuè Calaciura