8Per quanto ancora molto giovane, Renzo Bellanca si porta dietro un grosso bagaglio di esperienze, di ricordi, di pensieri e di passioni, o di ossessioni com’egli con qualche ironia le chiama, che da persona ordinata e riflessiva qual’è, e amante della ricerca archeologica, o meglio dell’affascinante mondo dell’archeologico, ha naturalmente, cioè istintivamente, sistemato a strati, nei quali con relativa facilità si può, come in territorio archeologico, tagliare una sezione che nel suo caso personale può leggersi e interpretarsi al pari di un paradigma del suo pensare e del suo modo di creare, per così proporsi all’attenzione altrui.
La stratificazione muove dalle origini stesse del mondo visibile, dalla natura ancor prima che dall’arte, ambiente nativo, un lembo dell’estrema periferia sud della Sicilia, dominato dalle manifestazioni di forze primigenie, lo zolfo, il sale, materie demoniache forse più che doni divini, nella tetraggine di un paesaggio cupo e quasi inesplicabile nell’isola del sole, un paesaggio impastato di fango e di vapori, quello delle cosidette Maccalube, fenomeno di una natura turbolenta e incoercibile. Ma basta poco per mettersi alle spalle anche fisicamente la tristezza di quel paesaggio, che per altro rimane nascosto dietro il colle su cui domina nella sua povertà atavica il piccolo paese di Aragona, di tarda (1606) fondazione feudale, basta infatti collinare verso il mare e presto ci si trova immersi in una delle più belle favole del mondo antico, con lo stesso incanto che di fronte ad essa senti il Goethe, quando nell’aprile del 1787 si affacciò dalla terrazza della vecchia Girgenti, trovandosi immerso in una “primavera splendida” in cima al “lieve declivio della città antica tutto rivestito di orti e di vigneti, sotto la cui verzura non si supporrebbe nemmeno la traccia dei quartieri urbani un tempo così vasti e così popolosi”.
Eppure sono lì nel verde e tra i fiori, col Tempio della Concordia, maestoso nella sua apparente integrità (un piccolo inganno della bella favola antica), “le rovine di tutti gli altri edifici sacri”, e gli studenti degli istituti artistici agrigentini fra i quali il ragazzo Bellanca, erano felici e se potevano con qualunque pretesto abbandonare le lezioni per andare fra quelle rovine come il pittore Kniep che del poeta tedesco fu il compagno di quel viaggio memorabile, a disegnare di prima mano gli avanzi più illustri della civiltà greca sopravvissuti per un miracolo della storia fino al nostro secolo. Peccato che il Goethe e il suo compagno, per le esigenze di un lungo viaggio forse o per un disguido dell’abatino che faceva da guida ai due forestieri e però omise di condurli fino alle Maccalube, malgrado lo spirito scientifico da cui il Goethe era sicuramente animato.
Peccato davvero, che no ci sarebbero dispiaciute affatto le impressioni e le osservazioni del poeta davanti a un fenomeno così insolito e così primigenio.
Quando, discorrendo con Bellanca nella visita fatta al suo studio alla periferia di Roma, casualmente dapprima e quindi per deliberato proposito mi accadeva di pronunciare i nomi di Burri o di Fontana, vedevo che gli occhi neri gli si illanguidivano, come in un sogno lontano, mentre aggiungeva con accento di paziente tolleranza e poi via via con più vigore e decisione, il nome di Tàpies.
Era chiaro che riteneva fondamentale l’influenza esercitata su di lui dal catalano Antoni Tàpies, anche se del tutto occasionali sono da considerare le coincidenze fra i due percorsi artistici, essendo molto lontani fra loro tutti gli elementi fondamentali che caratterizzano la formazione della personalità artistica del pittore catalano, e rispetto ad essa quella del giovane siciliano, a causa di differenze derivanti già dall’ambiente e dal momento storico di ciascuno dei rispettivi processi formativi, le date stesse dei due diversi percorsi, pur mettendo in conto il gap generazionale che si frappone tra i due. Con ciò tuttavia non si vogliono, e quasi superfluo avvertire, assimilare tra loro le due carriere, e neppure le motivazioni, come, e a maggior ragione, gli esiti, che di fatto sono imparagonabili. Quel che si vuole solo sottolineare è una coincidenza che probabilmente è del tutto casuale, ma potrebbe anche avere un suo particolare significato, che sfugge per il momento, a meno che non si voglia ricorrere a calcoli astrologici, a chi crede di poter formulare qualche ipotesi, su cui però per evitare equivoci, non si ritiene di poter insistere oltre una ragionevole misura.
Dunque il giovane Bellanca comincia a fare il pittore senza ovviamente allontanarsi dalla tradizione e scontata figuratività, di chi si è accostato all’arte ancora ragazzo in un istituto artistico di Agrigento, strettamente legato alla più ovvia tradizione per lo stesso provincialismo inevitabile in un piccolo centro dell’estrema periferia isolana, di una periferia cioè della periferia.
Fattosi consapevole dei limiti di quell’ambiente, decide di porsi come tappa successiva dei suoi studi l’Accademia di Belle Arti di Firenze, dove sceglie quale indirizzo principale della sua preparazione la scenografia, che in seguito diventa il suo campo di attività professionale nel quale opera tuttora dedicandosi in prevalenza alla cinematografia.
Da questa condizione esistenziale e professionale parte dunque il Bellanca, che ormai compie la sua esperienza artistica non solo con gli strumenti tradizionali di cui si è impossessato durante la fase di apprendimento scolastico, ma sempre più precisamente orienta le sue scelte artistiche anche sulla base dell’esperienza professionale che va compiendo secondo le necessità e le opportunità del “mestiere”di scenografo. Impara quindi a conoscere e a servirsi anche nel lavoro artistico dei materiali che adopera come scenografo, materiali in genere di produzione industriale, che non posseggono più nulla della raffinatezza che un tempo gli artisti cercavano di raggiungere nella preparazione dei materiali che impiegavano nella loro pittura.
Quando dunque decide di abbandonare la figuratività il giovane pittore ha già a disposizione tutta la gamma degli strumenti che gli occorrono per la nuova avventura per la quale dunque si ritrova già pronti gli arnesi indispensabili. Gli serve adesso, non solo per una normale esigenza intellettuale, ma per quelle stesse dettate dalla professionalità acquisita, l’ampliamento del bagaglio culturale che va ad attingere, o ha già attinto, alle origini stesse della modernità, individuate senza esitazioni, ad esempio, già nell’esperienza cubista, in sostanza riesplorando quelle che furono le più importanti invenzioni fuori dalla (se non contro la) tradizione degli artisti attivi al principio del secolo XX, e viene attratto così da un Braque, che prima di ogni altro, insieme con Picasso aveva introdotto materie estranee a qualunque norma tecnica tradizionale nella composizione del quadro, la sabbia, la carta, gli stracci che entrano nell’opera direttamente, senza alcuna mediazione di tipo artigianale o anche industriale, la materia bruta insomma, come si trova e viene raccolta nell’ambito del quotidiano, quale che sia lo stato di degradazione in cui l’uso corrente l’abbia ridotta.
La materia non rappresenta ma è essa stessa intollerabile sofferenza o decadimento e fine.
Come da Braque peraltro Bellanca deduce anche qualche soluzione secondaria o accessoria, ad esempio la forma del quadro, che in diversi casi si sviluppa in figura ellittica come i famosi ovali con “Nature morte”che già prima della Grande Guerra entrano stabilmente nella produzione di Braque. Tale è la realtà e l’artista non può che accettarla così com’è e utilizzarla per ciò che essa è, senza voler nemmeno attribuirle un qualunque valore simbolico. Ma in tanta rassegnazione in quello spirito di resa alla “realtà esistenziale”, come Argan dice dell’esperienza di Tàpies, nella generazione successiva, che in particolare è quella del Bellanca, viene il momento in cui l’artista acquistando conoscenza del proprio passato, dei raggiungimenti che malgrado tutto, anche contro il proprio destino e il destino della storia, l’uomo ha ottenuto nel suo ambiguo successo economico, peraltro duramente pagato, è preso da quella che Barthes, come mi pare di aver letto nella mostra dei suoi dipinti di recente visita in Palazzo Venezia in Roma, definisce l’euforia dell’alfabeto, e la materia accumulata sulla superficie del quadro, docile questa volta alla sua funzione di rappresentazione, rinuncia alla condizione neutra di relitto anepigrafo e si ricopre delle lettere dell’alfabeto, tracciate in tutte le tecniche: dipinte, graffite, impresse con gli stampini, che non si dispongono mai a formare parole note, o comunque segni di qualunque possibile significato, ma restano quali segni originari e primitivi, pronti a essere utilizzati per qualunque messaggio o scambio di informazioni tra i viventi, una potenziale oppure onirica lingua di una civiltà in fieri.
DANTE BERNINI